Considerato una risposta a Stato e Rivoluzione di Lenin, in questo libro l’autore condanna la deriva autoritaria della rivoluzione bolscevica, evidenziando l’inconciliabile antagonismo fra anarchismo e marxismo, fra socialismo libertario e socialismo autoritario, e l’assoluta irrinunciabilità, nelle rivoluzioni, al principio di libertà umana.
Come tanti altri, per Fabbri il vero punto di svolta fu costituito dalla rivoluzione sovietica. Nel suo Dittatura e rivoluzione la disamina del totalitarismo bolscevico comincia ad assumere i tratti di una critica più generale non solo del marxismo (cosa, ovviamente, tutt’altro che rara tra gli anarchici), ma anche dei presupposti culturali del materialismo storico (la centralità della lotta di classe, il verticismo rivoluzionario, e così via). Fabbri teneva presente l’approccio sperimentalista al problema della transizione, accennando all’antipatia bolscevica per la “libera iniziativa” propugnata dagli anarchici e affermando che tra i principi più importanti da proteggere vi era quello per cui “gli uni non debbano per forza subire una forma di organizzazione imposta dagli altri”. Tuttavia la prospettiva di Dittatura e rivoluzione era indiscutibilmente comunista, nel senso che era dato per scontato che questo sarebbe stato l’esito – giusto e giustificato – della rivoluzione: “tutti sanno – scrisse Fabbri – che gli anarchici sono, sul terreno economico, comunisti”. [da Pietro Adamo, introduzione a Libera sperimentazione, in «A rivista anarchica», anno 29 n. 256, estate 1999]